
Recluso in casa da non si sa quanto tempo
Lo sguardo al futuro, tra vent’anni, quando racconteremo ai nostri nipoti la quarantena ai tempi del Coronavirus.
“Com’è stato vivere quei giorni drammatici?” – ci domanderanno e noi racconteremo la nostra esperienza – “caro nipote, non è stato facile. Già l’inizio del 2020 fu abbastanza promettente, fornendoci un antipasto di ciò che avremmo vissuto in seguito: l’Australia in fiamme, la Brexit, il rischio di un conflitto tra Iran e Usa.”
Riflettendoci adesso, fa sorridere il fatto che, a fine Aprile, un asteroide grande come l’Everest fosse transitato a 6 milioni di Km dalla Terra. L’intenzione del corpo celeste era sicuramente quella di impattare sul nostro pianeta, poi visto che stavamo facendo tutto da soli ha rinunciato.
Vennero emanate disposizioni del Governo, in cui ci veniva chiesto di restare in casa, evitare assembramenti e rispettare la distanza interpersonale di almeno un metro (a non saper né leggere né scrivere, io mi sono distanziato dagli altri anche di tre metri); gli italiani naturalmente fecero il contrario. Iniziarono a correre, anche in branchi; non l’avevano mai fatto ma in quel momento era sorta la smania spasmodica di correre. In Francia ci fu addirittura chi fece peggio, in migliaia si recarono ad un raduno dei Puffi. ”Pufferemo il virus” – dissero in massa, invece fu il virus a puffare loro.
Durante il forzato isolamento in casa indossavamo tute, mentre i jeans erano solo un lontano ricordo; io stesso avevo dimenticato la struttura di quei pantaloni, ne avevo rimosso i caratteristici rivetti di rame o di metallo, il bottone centrale e il taglio a cinque tasche. Improvvisavamo flash mob. I primi giorni di quarantena ci recavamo ad un orario preciso al balcone ed acclamavamo l’Italia, plaudendo medici ed infermieri. Un giorno l’ho fatto anch’io ma ho sbagliato orario, tanto che Il vicino mi ha guardato male ed io ho provato a giustificarmi, dicendo che fuori era pieno di mosche e stavo provando a schiacciarle.
E poi cantavamo e cantavamo: l’inno di Mameli, Rino Gaetano, Celentano…Una sera iniziai ad intonare “Ma il cielo è sempre più blu” e lo stesso vicino, quello delle mosche, mi guardò male, cosicché da quel momento non sono più uscito fuori in balcone, nemmeno per ritirare i panni dallo stendino.
Vivevamo situazioni di bipolarismo: come Fantozzi in andropausa, alternavo momenti di estrema felicità e momenti di depressione profonda.
Era un continuo lavarsi le mani. Un giorno sono riapparsi gli appunti di Economia Aziendale del secondo superiore sul palmo della mano sinistra.
Si poteva uscire solo in caso di necessità impellente, con autocertificazione fornita dal Ministero ed era un continuo stampare fogli. La giornata si svolgeva in questo modo: il premier Conte comunicava la decisione di adottare un nuovo modello, il tempo di scaricarlo sul pc, accendere la stampante, mandare in invio la stampa, prendere il foglio in mano ed ecco che usciva una nuova autocertificazione.
Durava più la batteria del cellulare che il toner della stampante.
Per andare a fare la spesa si indossavano guanti e mascherine ma le seconde erano introvabili, così io utilizzavo la carta da forno e l’elastico delle mutande. La gente ne indossava di tutti i tipi, anche tra i più esotici e stravaganti: di stoffa, di lana, di plexiglass, di Zorro…
Ci abituammo a quella situazione di forte disagio, poi pian piano i contagi scesero fino ad arrivare al giorno in cui quasi tutto tornò alla normalità. “Anzi – mio caro nipote – io ho creduto che ne saremmo usciti anche migliorati, ma purtroppo l’essere umano è destinato a ripetere sempre gli stessi errori.